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Luna, il grande balzo mancato

L’alba della Terra

Il 20 luglio del 1969, avevo poco più di quattro anni.
Mi ricordo poco ora, i pochi rapidi flash che proprio in questi giorni dell’anniversario più importante(?) della storia umana, ritornano alla mente, vanno sempre più sbiadendosi quasi come le immagini della diretta televisiva in rigoroso bianco e nero. Quella notte ero nel lettone insieme ai miei genitori, nel mezzo, a guardare dal televisore Voxon, con tanto di stabilizzatore, la diretta della prima storica trasmissione della Rai tv. Forse vi sembrerà esagerato, ma anche se in tenera età riuscivo a capire il significato di tale evento. Mia madre, buon’anima, mi ripeteva spesso che sapevo ripetere i nomi dei tre astronauti: Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins, l’unico a non scendere sulla Luna ma che, quando si ritrovò sul lato oscuro della stessa, fu l’uomo più lontano dal pianeta Terra.
Erano le 4:56 del mattino -e non avevo chiuso occhio, come i milioni di telespettatori che videro la trasmissione con Tito Stagno che prima di battere le mani gridò «Ha toccato!», quando il comandante della missione Apollo 11, si staccò dalla scaletta del LEM e lasciò la mitica impronta del suo piede sul suolo del nostro unico satellite naturale. Da allora tutto il resto è storia.
La Luna è di diritto al primo posto nell’immaginario collettivo, da sempre, fin da quando l’uomo ha acquisito la coscienza di sè e ha alzato lo sguardo al cielo, chiedendosi che cosa fosse quel globo che illuminava, con la sua flebile luce, riflessa, le pericolose notti dell’uomo primitivo.
Quindi molto è stato detto in questi 50 anni. Addirittura come ormai tutti sanno, c’è chi dubita persino del fatto che sulla Luna non ci siamo mai stati. Io penso, invece, che ci siamo stati, forse non con L’Apollo 11 (il falso allunaggio venne effettuato solo per battere i russi), perché sono diverse le incongruenze, come ho evidenziato in questo post e in questa risorsa YouTube. Non starò a ripetere quindi quello che molti di voi, che come me si interessano di certi argomenti, sanno bene. Vorrei provare per una volta, quasi a girare la prospettiva, mettermi nei panni, non di Armstrong, ma soprattutto di Collins, che per primo vide la Luna da tutt’altra angolazione. Un evento quasi incredibile, proprio come hanno detto gli americani e come recita la famosa targa lasciata sul suolo lunare («Siamo venuti in pace per tutta l’umanità»), avrebbe dovuto, come evento di eccezionale portata unirci di più, indipendentemente dalla bandiera che tutt’ora forse sventola lassù. Ora tutto il genere umano, sarebbe dovuto essere appunto sotto una sola bandiera, con tutte le differenze, ma con un solo obiettivo: quello di cooperare per il bene della stessa. Inutile dire che così non è stato.
Ancora una volta l’uomo ha agito per interesse personale, o di uno stato, perdendo una grande occasione. Ci sarebbe da chiedersi adesso, quale potrebbe essere l’evento che, farebbe da collante. Un’apocalisse? Certo “un grande spavento” forse servirebbe, visto il decadimento della nostra civiltà, ma a quale prezzo? Il primo contatto con una civiltà aliena (gli ufologi sostengono che ve ne siano tracce anche sulla Luna), o una loro invasione? Non è proprio fantascienza, come già detto in passato, persino Reagan, in un famoso discorso all’Onu, negli anni ‘80, mise in guardia il mondo da una tale ipotesi.
Un’altra visione prospettica è il perché dal 1972, data dell’ultima missione con l’Apollo 17 (sebbene si pensi che in realtà ci siano state altre tre missioni top secret), nessun altro uomo, a parte i 12 astronauti delle varie missioni, vi ha mai più messo piede… e anche qui ci vorrebbe un punto interrogativo.
Diciassette missioni del Programma Apollo, in poco più dieci anni e di colpo: stop! Perché? Finiti i fondi? Probabile. Tecnologia obsoleta? Forse. Ma in questo senso ricordo a quanti non ci abbiano fatto caso che dal primo volo dei fratelli Wright, nel 1903, che durò solo pochi secondi per un centinaio di metri, in soli 67 anni abbiamo compiuto il «grande balzo». Televisori in B/N, i primi elettrodomestici e automobili dal design anacronistico rispetto al vettore Saturn 5 eppure, il razzo è riuscito a sconfiggere la gravità terrestre; altro dubbio per chi sostiene che l’uomo non può andare oltre l’orbita terrestre, come non può superare le cosiddette fasce di Van Allen.
E allora perché in questi 50 anni la Luna non è stata colonizzata? Perché non abbiamo almeno una base stabile? No. Non sono domande che rimarranno senza risposta. Proprio l’altro ieri è andato in onda, su Focus, dopo la discutibile revisione del segretario del Cicap Massimo Polidoro e di Paolo Attivissimo, il film La grande corsa allo spazio di Paul J. Hildebrand (2016). Nel film oltre ad illustrare le prossime missioni, un membro del governo asserì che le missioni lunari, a suo tempo, sarebbero state annullate per questioni di «difesa». Ora, se è risaputo che la NASA, l’ente spaziale americano, è militarizzato, da cosa dovremmo difenderci? E da chi?
Un antico proverbio africano recita: «Solo Dio può camminare sulla Luna», sembra quasi un mònito e anche se la Luna, fa palpitare da sempre i cuori degli innamorati, e di chi guarda ad essa come uno scolaretto alle prime lezioni, resta sempre una severa maestra.

Credit: photo Apollo 8, © Nasa

Captive State: tra ordine e caos

«La nostra ossessione per l’antagonismo del momento, ci fa dimenticare spesso quanto uniti devono essere tutti i membri dell’umanità. Forse abbiamo bisogno di una lezione, proveniente dall’esterno, dall’universo, che ci faccia riconoscere questo bene comune. Occasionalmente penso a come le nostre differenze planetarie potrebbero facilmente dissolversi, se dovessimo affrontare una battaglia con una forza aliena esterna a questo pianeta…». Questa citazione è parte di un famoso intervento di Ronald Reagan(1) sugli ufo all’Onu, il 21/09/1987, e che nelle sue intenzioni sarebbe dovuto essere di auspicio, una sorta di collante per l’umanità, facendo sperare in un futuro diverso. Com’è diverso in tutti i sensi l’intento di Rupert Wyatt (già autore del reboot/remaque L’Alba del pianeta delle scimmie, 2011), nel suo, da poco nelle sale, Captive State. Un’opera particolare non solo per la trama, gli effetti e l’ambientazione, ma proprio per il suo significato intrinseco che, è l’opinione comune, travalica naturalmente e di molto, il discorso fantascientifico. Infatti è solo l’invasione aliena, che per alcuni scienziati, con in testa il compianto Stephen Hawking (1942-2018), che si lamentava del fatto che segnalare la nostra posizione alle altre, possibili civiltà presenti nel nostro vicino universo, è molto pericoloso, perché potrebbero arrivare civiltà bellicose che vogliono solo predarci, è da considerarsi, ma non tanto, fantascienza. È proprio questo che accade nel film di Wyatt.
La storia inizia quasi dieci anni dopo il “primo contatto”, non pacifico, come in Star Trek, ma gli alieni, sfuggenti e dalla particolare forma, arrivati con astronavi che ricordano più le montagne sospese di Avatar, che le forme-pensiero di Arrival, si sono stanziati nel sottosuolo della Terra (una strizzatina d’occhio alla teoria che vuole che gli ufo provengano dall’interno del nostro pianeta?), per depredarlo di tutte le risorse naturali. L’umanità vive sulla superficie, in un mondo devastato dalle guerre, uno scenario post-atomico, dove la popolazione è divisa tra collaborazionisti e insurrezionisti che cercano, con una organizzazione clandestina la “Fenice”, di capovolgere le sorti del, non ancora segnato, destino.
Diversi sono i film paragonabili alla pellicola in oggetto. La Chicago di Wyatt, ricorda la Los Angeles del film World Invasion (J. Liebesman, 2011), anche se lì si combatteva a distanza ravvicinata per le strade.
La Macchina Da Presa entra dappertutto, nelle strettoie, nelle case, nelle baracche, con riprese quasi “a spalla” riprendendo i soggetti da dietro, come in un docufilm, che fa balzare alla mente lo splendido I figli degli uomini (A. Cuaròn, 2006), mentre il vago retrogusto segregazionista rimanda a film come Alba Rossa (J. Milius, 1984), con protagonisti dei ragazzi, costretti a diventare uomini troppo in fretta. Come il protagonista del film Gabriel che ha visto i genitori morire sotto i suoi occhi, uccisi dagli alieni, i Legislatori, alla ricerca del fratello Rafael, due “Angeli Negri” (F. Leali), impegnati nell’eterna lotta tra il bene e il male.
Infine, le atmosfere orwelliane, fatte di orizzonti cupi, di chip, di cimici, impiantate alla base del collo (altro riferimento agli impianti degli addotti), ma sul davanti, di collari che rimandano alla teoria che l’uomo probabilmente è un animale addomesticato, infatti una delle traduzioni del titolo del film è: Stato di cattività.
La tecnologia nell’anno 2025 c’è ancora, i computer, internet, anche se ci si collega alla rete alla vecchia maniera, cioè usando la cornetta del telefono, niente mail, ma messaggi anonimi nelle inserzioni dei quotidiani, niente iPod, ma i vetusti 33 giri, fino ai piccioni viaggiatori. Ma a rafforzare il concetto che ormai siamo schiavi della tecnologia, a tal punto da non vedere ciò che accade davvero intorno a noi, con i poteri che entrano sempre più in maniera spietata nella nostra privacy, è grazie ad un vecchio telefonino Blueberry e alla sua scheda che Gabriel scopre la verità, fino a capire i giochi del potere, il ribaltamento dei ruoli, dei concetti, nel film «niente è come sembra». Il commissario (un ottimo John Goodman) è una sorta d’infiltrato, la prostituta Jane Doe(2) è in realtà il Numero Uno della Fenice, fino alla difficile scelta tra ordine o caos, tra democrazia o anarchia, perché a volte non basta un fiammifero per accendere una guerra (dal film).
«E ancora mi chiedo: non esiste già una minaccia aliena sopra di noi?». Così Reagan terminò il discorso iniziale che dal punto di vista ufologico è ineccepibile, ma la morale del film è, purtroppo ben altra. Forse non dobbiamo pensare agli alieni come extraterrestri provenienti dallo spazio profondo, forse i veri nemici sono più vicini di quanto potremo mai immaginare…

Note:
1. Ronald W. Reagan (1911-2004) è stato il 40° Presidente USA dal 1981 al 1989.
2. Jane Doe, nome che viene dato negli ospedali americani alle donne che non possono essere, per il momento, identificate, è interpretata dall’attrice Vera Farmiga.

The Predator, la saga e…

«Nessuno gli ha mai dato un nome. 1987 Guatemala. Una squadra di corpi speciali andò nella giungla. I migliori sei uomini scelti più un’agente della CIA.
Solo uno ritornò… disse che vennero in contatto con qualcosa. La descrizione era dettagliata (omissis) gli altri furono presi ed ammazzati, uno dopo l’altro».
Questa cruenta citazione è tratta dal film Predators (N. Antal, 2010) terzo in ordine cronologico dell’ormai famosa saga, uscito a ben vent’anni di distanza da Predator 2 (S. Hopkins, 1990), séguito di un vero cult e cioè il primo Predator (J. McTiernan, 1987), quello con A. Schwarzenegger tanto per intenderci (l’unico a salvarsi), dove recitava anche un giovane Shane Black (il primo a cadere sotto i colpi del micidiale cacciatore alieno), co-sceneggiatore e regista di The Predator, uscito da poco nelle sale.
Spietati e letali come Alien, da ricordare i due crossover, Alien vs Predator (P.W.S. Anderson, 2004) e Alien vs Predator 2 (Strause Bros., 2007), ma molto più evoluti e intelligenti, con armi sempre più distruttive, ora riproposti anche potenziati dal punto di vista genetico, grazie all’ibridazione con altre specie, cacciate in ogni angolo della galassia per assicurarsi il miglior DNA e quindi un patrimonio genetico conforme alle loro caratteristiche intrinseche. Due gli elementi da sottolineare, l’ambientazione dei vari film e la forte caratterizzazione dei personaggi. Come detto il primo Predator era ambientato nella giungla e i protagonisti erano un gruppo omogeneo di soldati.
Nel secondo Predator si passa alla giungla urbana di una Los Angel sotto il controllo dei signori della droga. Il cacciatore alieno miete vittime da tutte le parti: poliziotti e spacciatori, criminali e agenti speciali. In Predators siamo ancora in una giungla, ma i malcapitati, un gruppo stavolta eterogeneo di soldati mercenari, condannati a morte e serial killer viene paracadutato su un diverso pianeta, la riserva di caccia dei Predator. Nel film di Black, un fanta horror con dettagli splatter, assistiamo ad un mix tra giungla (dove avviene una sorta di Ufo Crash, una futuristica astronave, che ricorda quasi quello di Roswell, 1947) e la città, dove stavolta agisce addirittura un Super Predator, alto quasi tre metri e mezzo, giunto sulla Terra per eliminare il primo Predator precipitato all’inizio. In tutta la saga c’è un altro filo conduttore, uno dei classici stereotipi della fantascienza, eroe maschile a parte, anche le donne qui fanno la loro parte.
Nel film dell’87 era una tenace guerrigliera, nel seguito, il secondo della saga, una tosta poliziotta, nel film di N. Antal (Predators), c’era una sniper delle truppe speciali statunitensi e in quest’ultimo una biologa che, smesso rapidamente il camice bianco, maneggia qualsiasi tipo di arma, ricordando a tratti la coraggiosa tenente Ellen Ripley (S. Weaver) di Alien.
Nel film di Black, che possiamo definire politicamente equilibrato, c’è di tutto: l’eroe è affetto da DPTS (Disturbo da stress post-traumatico), i suoi compagni per caso, sono uno più pazzo dell’altro, uno di loro è affetto addirittura dalla Sindrome di Turner, una malattia genetica molto rara, un’anomalia cromosomica, che colpisce esclusivamente le donne (ma qui è un uomo), infine il bambino autistico figlio dell’eroe, ma vero protagonista della storia. E la biologa? Essendo la prima della lista a dover essere interpellata in caso di “primo contatto”, è scortata in una base segreta dove è in atto il Progetto Stargrazers (grazers=erbivori), nome strano, ma non tanto come vedremo. Lì, per la prima volta vede l’alieno e lì scopre che i Predator, hanno un particolare codice genetico, composto anche da tratti di DNA umano! Com’è possibile? È possibile attraverso un “fenomeno” o “processo” definito Metilazione che è una modificazione epigenetica, «che si occupa dei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo» (Wikipedia), del DNA. «Il genoma dei mammiferi è quasi del tutto metilato, a eccezione di alcun zone (omissis) ed è un fenomeno che interviene nel controllo dell’espressione genica, nell’inattivazione del cromosoma X (ecco il perché della Sindrome di Turner, nda), nella struttura cromatinica e nell’imprinting genomico» (Wikipedia).
Mammiferi, come ad esempio la pecora, che è un erbivoro, e che potrebbe, secondo studi alternativi aver subito anticamente un fenomeno identico tenuto conto che è l’unico animale al quale cresce il pelo all’infinito! Come a noi umani crescono i capelli… Chi ha permesso ciò? Solo la natura, visto che la scienza parla di stranezze, anomalie, scherzi della stessa, persino di eventi sfortunati? Come l’autismo? Una malattia, come tante altre oppure «una nuova tappa nell’evoluzione»? Intanto il bambino è l’unico a capire la tecnologia del Predator, facendo funzionare armi, computer e il casco, con il quale inavvertitamente chiama l’astronave dando inizia ad una vera caccia del Super Predator nei confronti del Predator. Quest’ultimo contrario al fatto che la sua specie vuole impossessarsi dell’intero pianeta, perché il cambiamento climatico potrebbe, nell’arco di un paio di generazioni, portare all’estinzione della razza umana e quindi, dando un’accelerata, modificare la Terra e rendendola adatta alle loro esigenze, ma salvando i tratti del nostro DNA, utili al loro scopo. Il bambino diventa l’obiettivo primario, con il suo particolare patrimonio genetico, rapito e portato sull’astronave-Arca. Quasi come se fossimo «alla fine dei tempi». L’Apocalisse.
E qui i concetti cominciano a farsi molto interessanti, più di quanto dicano espressamente le sinossi dei vari lungometraggi. Se è proprio in questo film che gli viene assegnato il nome perché «più fico», non tutti sanno che in realtà i Predator appartengono alla specie aliena (immaginaria logicamente) degli Yautja, inoltre un sito specializzato «li pone al terzo posto nella lista dei dieci alieni cinematografici più spaventosi, e fra le dieci razze aliene meglio riuscite, mentre la comunità scientifica ha nominato il ragno oonopide Predatoroonops yautia in onore della specie»(1). Personaggio creato dai fratelli Jim e John Thomas, ha avuto una difficile gestazione fino a quando nel progetto fu coinvolto il pluripremiato e rimpianto Stan Winston (suoi infatti gli effetti speciali per i sequel di Alien e Terminator, Jurassic Park, Avatar ecc.) che ne fece un vero character, ispirato da un quadro di Alan Munro raffigurante un guerriero dal forte look rastafarianesco. «Predator 2 fu il primo a mostrare l’interno di una nave Yautja, il cui disegno fu ispirato dall’architettura azteca e maya»(2). L’apice di tale concetto viene raggiunto nel primo crossover (Alien vs Predator) dove a centinaia di metri sotto l’Antartide, i protagonisti scoprono una piramide costruita secondo le conoscenze delle civiltà egizia, cambogiana e azteca, confermando in tal senso tutta una letteratura di frontiera che afferma che la nostra civiltà è stata fortemente influenzata dagli extraterrestri, e non solo a livello architettonico (le piramidi, ecc.).
Ancora più sorprendente è il termine utilizzato nel romanzo di John Shirley, dal titolo Predator: Forever Midnight, che identifica gli Yautja con la frase “Hish-qu-Ten” cioè “popolo che si impadronisce di territorio”(3). Non sono riuscito ad appurare con certezza a quale lingua appartenga la frase, sembra un misto fra l’ebraico (la scrittura) e il cinese (la fonetica), ma se facciamo finta che sia ebraico allora è possibile fare dei parallelismi, spero abbiate capito, con La Bibbia!
Premesso che il Rastafarianesimo è una vera fede religiosa quasi erede del Cristianesimo, e che «riveste una certa importanza nella tradizione della Chiesa ortodossa d’Etiopia a cui tutti i rasta fanno riferimento (omissis) è fondata sull’esempio e la predicazione (del suo fondatore, nda) Hailé Selassié I»(4). Il popolo (che popolo non era e non era nemmeno una tribù), ma un semplice clan familiare capeggiato da Giacobbe figlio di Isacco, il cui secondo nome era Israele (e da qui la confusione, nda) che, con la guerra, riuscì a conquistare solo dei piccoli pezzi di territorio con l’aiuto di Yawhew. Ora se consideriamo il termine “hish” un nome collettivo (popolo), ancora in ebraico “ish” semplicemente significa “uomo”.
Yawhew, l’Elohim (plurale) fatto diventare “Dio”, viene definito: “ish milchamàh” (Esodo 15,3), letteralmente “uomo di guerra”. Uomo. Non Dio. Probabilmente c’è più (fanta)scienza nel nostro passato che nel nostro immediato futuro.

Nota dell’autore:
Dove non specificato le citazioni sono tratte dal film.

Note:
1. https://it.wikipedia.org/wiki/Yautja
2. idem
3. idem
4. https://it.wikipedia.org/wiki/Rastafarianesimo

Fonti:
1. https://it.wikipedia.org/wiki/Yautja
2. https://www.comingsoon.it/film/the-predator/54399/recensione/
3. https://www.mymovies.it/film/2018/predator/
4. http://www.fantascienza.com/24049/the-predator-e-nelle-sale
5. https://it.wikipedia.org/wiki/The_Predator_(film)
6. Wikipedia

Credit: immagine tratta da https://www.mymovies.it/film/2018/predator/poster/1/

Life: vita o morte?

In principio fu il mitico Alien (R. Scott, 1979) con lo xenomorfo che, in una delle scene più terrorizzanti della storia del cinema, veniva al mondo squarciando il petto del compianto John Hurt, morto solo pochi mesi fa. Life, Il thriller fantascientifico del regista svedese di origine cilena Daniel Espinosa, con sottotitolo “Non oltrepassare il limite”, ha infatti molte similitudini con il capolavoro del regista di Blade Runner.
Il film di Espinosa inizia con un magnifico piano-sequenza e, mentre il pianeta sotto dorme tranquillo, una nuova alba illumina con una vivida luce l’International Space Station.
La missione è quella di recuperare un modulo di ricerca di ritorno da Marte: «il primo modulo della storia a tornare dal pianeta». A bordo, tra gli altri reperti c’è, però, la «prima incontrovertibile prova di vita oltre la Terra». Un organismo unicellulare che risulta essere anche gradevole alla vista, ma già in grado di fornire una prima risposta, un essere con base carbonio, tutto muscoli, centri nervosi (cervello) e occhi.
Stimolato prima con ossigeno, la sua primaria fonte di nutrimento, poi con glucosio, infine con deboli scariche elettriche, l’organismo si risveglia dal suo lungo sonno e inizia a crescere, a svilupparsi, a reagire subito violentemente con i sei membri dell’equipaggio; l’alieno è resistente al vuoto cosmico, come alle alte temperature e, proprio come Alien (ma all’inizio più somigliante al facehugger), difficile da uccidere. E la stazione spaziale dapprima asettica, come la Discovery di 2001, inizia ad assomigliare sempre più alla Nostromo, il buio antro dentro cui il male risiede. Passata l’euforia della scoperta, con tutto il mondo sotto a festeggiare, l’adrenalina inizia a scorrere nelle vene dei protagonisti, ma non troppo nello spettatore abituato ed avvezzo a simili visioni (un plauso agli ottimi effetti speciali e al sinuoso design della creatura), gli astronauti cadono, di conseguenza, uno ad uno, in modalità più o meno già viste e dove lo spargimento di sangue non è da film splatter, infatti, in assenza di gravità, esso fuoriesce dal corpo della prima vittima, a piccole bolle che si spargono nella capsula. Il film ripercorre i classici stereotipi della fantascienza, ciò confermato dallo stesso regista che in un’intervista (che potete vedere qui), afferma: «Per me si tratta di rimanere fedeli alla tua anima… con questo film abbiamo avuto un’opportunità incredibile di fare qualcosa che segue le regole del genere ma allo stesso tempo fa evolvere i personaggi… e questo perchè, credo, i buoni film di fantascienza lavorano ad un livello sotterraneo e soprattutto nel conflitto tra i personaggi. La storia è il veicolo…». Infatti il film, lavora proprio in questo senso e veicola concetti che arrivano fino in fondo all’anima. E questa non è un’iperbole.
Non farò spoiler sul finale, che potrebbe sembrare scontato leggendone la sceneggiatura, ma non lo è quindi, aspettatevi il colpo di scena; quello che voglio fare è cercare di entrare, non nei meandri dell’astronave per scovare l’alieno, ma appunto, dentro noi stessi. Con le solite domande, in grado di instillare dubbi, non certezze, di sgretolare il muro della ragione, andando oltre le convenzioni, le consuetudini, che risultano essere ormai, terreno fertile per facili e sbrigative considerazioni. A partire già dal titolo. L’essere umano, ma possiamo benissimo considerare l’intera razza umana tende appunto ad “umanizzare” concetti che tali non sono. Come un ricordo atavico, ancestrale, per dormire sonni tranquilli, l’uomo riduce tutto alla condizione umana, riuscendo spesso a controvertire, il significato di idee e concetti che, invece dovrebbero stimolarlo a crescere. Di conseguenza il titolo Life è quanto meno fuorviante. Il nostro pianeta dovrebbe chiamarsi Acqua, non Terra; all’alieno, per renderlo più familiare bisogna necessariamente dargli un nome, qualunque esso sia, non ha importanza, esso non odia, siamo noi che, per paura odiamo, e Life, proprio non significa vita, ma morte perché, come afferma uno degli astronauti: «la vita è distruzione». Ed è proprio qui che viene superato il limite, attendiamo con autentico fervore il giorno in cui capiremo di non essere soli: «E se il primo contatto sarà il nostro più grande errore?».

Il Prof. Milton Wainwright e un organismo alieno

Nel film la creatura aliena arriva con un passaggio, ma se non ce ne fosse bisogno? Alcuni organismi possono vagare anche per eoni nel vuoto cosmico, prima di trovare un pianeta a loro adatto? Fantascienza a parte, in realtà è già successo? Nel 2015 il prof. Milton Wainwright, ricercatore dell’Università di Sheffield (UK), ha affermato in un’intervista che sono stati scoperti organismi alieni nella Stratosfera (a soli 30 km dalla superficie terrestre). Il film Life, si basa forse su tale scoperta? Gli organismi sono stati rilevati con l’ausilio di una sonda e risultano essere costituiti da carbonio, azoto ed ossigeno, tutti elementi che, guarda caso, sono citati ampiamente nel film e che come ormai tutti sappiamo essere i mattoni base di quella che viene considerata vita. Sebbene lo scienziato sia stato ampiamente criticato, ma c’era da aspettarselo, da tutti i suoi colleghi, lo studio venne in un primo momento anche pubblicato sul Journal of Cosmology. Il professore tentò a suo tempo di coinvolgere la Nasa per confermare le sue ricerche, ma capì che non era questa l’intenzione dell’Ente Spaziale americano che, e poteva essere altrimenti, ha occultato tutto facendo sparire i documenti relativi. Questa in sintesi la storia che potete leggere per esteso andando al link presente nelle fonti e qui si conclude anche questo post. Tornando per un attimo all’opera del regista cileno-svedese, il film mostra in pratica la fragilità del nostro pianeta, la mancanza completa di umiltà del genere umano rispetto a tali concetti e di una civiltà refrattaria, piena di contraddizioni, che vive totalmente all’oscuro di quanto accade sopra di essa.
Di questo passo il nostro destino è già segnato e ciò si evince dalla mancanza di speranza insita nell’ultimo messaggio registrato dalla comandante della missione, più o meno simile a quello lanciato da Ripley; ma preferisco chiudere con quello che dà il senso di un epitaffio scritto sulla lapide del nostro mondo, una nenia per bambini ma dal forte retrogusto amaro ed inquietante, la filastrocca che potete però ascoltare completa solo nel trailer: «Buonanotte Luna, buonanotte piuma, buonanotte mucca che salti sulla Luna, buonanotte luce sei una grande fortuna, buonanotte stelle, buonanotte aria, buonanotte suono che ogni notte varia».

Nota:
Tutte le citazioni sono tratte dal film.

Fonti:
https://www.comingsoon.it/film/life-non-oltrepassare-il-limite/53584/recensione/
https://www.comingsoon.it/cinema/news/life-non-oltrepassare-il-limite-una-creatura-aliena-tutta-muscoli-e-tutta/n65285/
http://www.mymovies.it/film/2017/life/
http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/cinema/2017/03/22/life-torna-la-paura-di-alien-ed-e-2.0_af210a4f-832f-43b6-b032-c4f7177de283.html
http://www.segnidalcielo.it/organismi-alieni-scoperti-nella-stratosfera-i-documenti-vengono-occultati-dalla-nasa/

Immagine: elaborazione grafica di Giuseppe Nardoianni con frames tratti dal filmato youtube.

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