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Il Primo Re: il fiato degli Dèi

Alessandro Borghi è Remo

L’agnellino bianco rannicchiato sull’erba nella classica posizione pasquale, poco più in là il resto del gregge, due pastori a sorvegliare il loro pascolo. Pioggia, tanta pioggia, tuoni e fulmini, quasi un castigo di Dio. Uno dei pastori prega chiedendo la protezione degli Dèi affinché plachino le ire della natura e mentre incide un simbolo su una roccia, un rombo annuncia la catastrofe: solo il tempo di dire:  «scappa» (il film è recitato in una forma di latino arcaico) e una piena del Tevere, come un piccolo diluvio, travolge tutto e tutti: le bestie e gli uomini, i due fratelli Romolo e Remo, sballottati dalla furia dell’acqua, sbattuti contro rami e rocce si salvano a stento, ma solo per finire prigionieri dei guerrieri di Alba.
Queste le prime sequenze del film Il primo Re, diretto da Matteo Rovere, regista italiano per un film che non sembra del tutto tale. Nudo e crudo, cupo e viscerale allo stesso tempo, poetico e sanguinario, a tratti solenne come The Passion di M. Gibson (recitato in latino e aramaico) e con elevate punte di sacralità alla Avatar (J. Cameron). Non tanto per la magnificenza delle scene piene di colori talmente cangianti da sembrare innaturali nel capolavoro di Cameron, ma da ciò che traspare palesemente dai dialoghi. Nel film di Rovere dove viene rappresentata l’inizio della civiltà italica, ma il concetto potrebbe essere più esteso; pare che il sole non sorga mai, anche se gli uomini sembrano risorgere dal fango, dall’argilla, ma con nessun Dio a soffiare nelle narici, perché prima del monoteismo, prima dell’unico Dio (concetto che per molti revisionisti è una teologia falsa), lontano ancora più di 700 anni, quel dio era donna: La Trinità Dea.

Alfabeto Runico

Ma andiamo con ordine: cos’è quello strano simbolo scavato a fatica nella roccia? Potrebbe essere una lettera dell’alfabeto runico? E se così fosse come potevano conoscerlo se è un simbolo proprio delle popolazioni nordiche? In particolare nell’alfabeto antico inglese, il segno potrebbe essere il “Sigel”, la cui traduzione è “sole”, “spiritualità”. Sebbene il significato del termine “runa” significhi anche “protezione” (ecco il perché dell’incisione sulla roccia, prima dell’inondazione), ciò sottintende un’origine magica dei segni, inoltre: «Dai più antichi esempi di scrittura, attraverso canali sotterranei della mente umana ed in similarità con altri alfabeti, le rune narrano la creazione dell’uomo nonché della specie umana. Sono arrivate a noi quale testimonianza di un modo di vivere di un mondo primitivo, ma non per questo privo di fascino e con il loro significato etimologico, storico, mitologico ed esoterico fanno pertanto parte del patrimonio dell’umanità»(1). Ed è proprio questo che traspare a chiare lettere nell’opera di Rovere che -e se questo era l’intento è riuscito in pieno, ha concepito e realizzato un’opera, che sebbene racconti di Roma, prima di Roma, il suo sottobosco ha i connotati dell’Universalità. Sul poster si legge: «La storia diventa leggenda», ma la leggenda spesso diventa storia ed entrambe confluiscono nel mito. Un mito che è proprio di tutta la civiltà umana, che parla di Dèi scesi dal cielo. Di uomini e di donne che parlavano con Loro, e che quando sono partiti hanno lasciato una conoscenza che è solo di chi riesce a comprenderla, con cuore puro e spirito saldo.
Dèi che sono confluiti nelle forze della natura ed infatti nel film sono tre gli elementi principali: acqua, terra e fuoco, a formare la Trinità Dea: il fuoco sacro, custodito dalla vestale (la famosa lupa della leggenda?), l’unica autorizzata a proteggerlo, a custodirlo, l’unica che può interpretare il volere degli dei, che parlano per sua bocca: «il fiato degli Dèi». Ella predice il futuro dei due fratelli e sebbene veda in Remo una luce sacra, purtroppo ne resterà soltanto uno. Sempre lei li proteggerà fino alla fine, la sua fine, proteggerà Remo e Romolo ferito in battaglia. Remo va incontro al suo destino, di cui è artefice e vittima allo stesso tempo, la sua luce è esteriore, un guerriero viscerale, non ha la luce interiore di Romolo. E per questo che Remo “passa il solco”. Metaforicamente e praticamente e concede a Romolo di diventare un simbolo, un simbolo di forza, di unione, di coraggio e clemenza, un simbolo vero, perché: «i simboli veri provengono dall’ inconscio collettivo, dalla vita dell’universo e non dalla vita del singolo individuo»(Carl G. Jung)).
È quando l’uomo vuole elevarsi a Dio che le cose non funzionano, in particolare se pensiamo di capire Dio, perché se un Dio può essere capito dagli uomini, non può essere un vero Dio. Sui titoli di coda appare una mappa con l’espansione dell’impero romano che si estende fino a raggiungere la Terra Santa dove millenni prima l’Elohim (plurale) conosciuto da alcune piccole tribù con il nome di Yahweh è stato fatto diventare l’unico Dio vero.

Note:
1. Fernanda Nosenzo Spagnolo, “Divinazione con le rune”, l’Airone Editrice, Roma, 1997.

Credits:
http://www.novaracinema.it/al-faraggiana-il-primo-re-con-alessandro-borghi-da-giovedì-31-gennaio
http://www.wikiwand.com/en/Anglo-Saxon_runes

The Predator, la saga e…

«Nessuno gli ha mai dato un nome. 1987 Guatemala. Una squadra di corpi speciali andò nella giungla. I migliori sei uomini scelti più un’agente della CIA.
Solo uno ritornò… disse che vennero in contatto con qualcosa. La descrizione era dettagliata (omissis) gli altri furono presi ed ammazzati, uno dopo l’altro».
Questa cruenta citazione è tratta dal film Predators (N. Antal, 2010) terzo in ordine cronologico dell’ormai famosa saga, uscito a ben vent’anni di distanza da Predator 2 (S. Hopkins, 1990), séguito di un vero cult e cioè il primo Predator (J. McTiernan, 1987), quello con A. Schwarzenegger tanto per intenderci (l’unico a salvarsi), dove recitava anche un giovane Shane Black (il primo a cadere sotto i colpi del micidiale cacciatore alieno), co-sceneggiatore e regista di The Predator, uscito da poco nelle sale.
Spietati e letali come Alien, da ricordare i due crossover, Alien vs Predator (P.W.S. Anderson, 2004) e Alien vs Predator 2 (Strause Bros., 2007), ma molto più evoluti e intelligenti, con armi sempre più distruttive, ora riproposti anche potenziati dal punto di vista genetico, grazie all’ibridazione con altre specie, cacciate in ogni angolo della galassia per assicurarsi il miglior DNA e quindi un patrimonio genetico conforme alle loro caratteristiche intrinseche. Due gli elementi da sottolineare, l’ambientazione dei vari film e la forte caratterizzazione dei personaggi. Come detto il primo Predator era ambientato nella giungla e i protagonisti erano un gruppo omogeneo di soldati.
Nel secondo Predator si passa alla giungla urbana di una Los Angel sotto il controllo dei signori della droga. Il cacciatore alieno miete vittime da tutte le parti: poliziotti e spacciatori, criminali e agenti speciali. In Predators siamo ancora in una giungla, ma i malcapitati, un gruppo stavolta eterogeneo di soldati mercenari, condannati a morte e serial killer viene paracadutato su un diverso pianeta, la riserva di caccia dei Predator. Nel film di Black, un fanta horror con dettagli splatter, assistiamo ad un mix tra giungla (dove avviene una sorta di Ufo Crash, una futuristica astronave, che ricorda quasi quello di Roswell, 1947) e la città, dove stavolta agisce addirittura un Super Predator, alto quasi tre metri e mezzo, giunto sulla Terra per eliminare il primo Predator precipitato all’inizio. In tutta la saga c’è un altro filo conduttore, uno dei classici stereotipi della fantascienza, eroe maschile a parte, anche le donne qui fanno la loro parte.
Nel film dell’87 era una tenace guerrigliera, nel seguito, il secondo della saga, una tosta poliziotta, nel film di N. Antal (Predators), c’era una sniper delle truppe speciali statunitensi e in quest’ultimo una biologa che, smesso rapidamente il camice bianco, maneggia qualsiasi tipo di arma, ricordando a tratti la coraggiosa tenente Ellen Ripley (S. Weaver) di Alien.
Nel film di Black, che possiamo definire politicamente equilibrato, c’è di tutto: l’eroe è affetto da DPTS (Disturbo da stress post-traumatico), i suoi compagni per caso, sono uno più pazzo dell’altro, uno di loro è affetto addirittura dalla Sindrome di Turner, una malattia genetica molto rara, un’anomalia cromosomica, che colpisce esclusivamente le donne (ma qui è un uomo), infine il bambino autistico figlio dell’eroe, ma vero protagonista della storia. E la biologa? Essendo la prima della lista a dover essere interpellata in caso di “primo contatto”, è scortata in una base segreta dove è in atto il Progetto Stargrazers (grazers=erbivori), nome strano, ma non tanto come vedremo. Lì, per la prima volta vede l’alieno e lì scopre che i Predator, hanno un particolare codice genetico, composto anche da tratti di DNA umano! Com’è possibile? È possibile attraverso un “fenomeno” o “processo” definito Metilazione che è una modificazione epigenetica, «che si occupa dei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo» (Wikipedia), del DNA. «Il genoma dei mammiferi è quasi del tutto metilato, a eccezione di alcun zone (omissis) ed è un fenomeno che interviene nel controllo dell’espressione genica, nell’inattivazione del cromosoma X (ecco il perché della Sindrome di Turner, nda), nella struttura cromatinica e nell’imprinting genomico» (Wikipedia).
Mammiferi, come ad esempio la pecora, che è un erbivoro, e che potrebbe, secondo studi alternativi aver subito anticamente un fenomeno identico tenuto conto che è l’unico animale al quale cresce il pelo all’infinito! Come a noi umani crescono i capelli… Chi ha permesso ciò? Solo la natura, visto che la scienza parla di stranezze, anomalie, scherzi della stessa, persino di eventi sfortunati? Come l’autismo? Una malattia, come tante altre oppure «una nuova tappa nell’evoluzione»? Intanto il bambino è l’unico a capire la tecnologia del Predator, facendo funzionare armi, computer e il casco, con il quale inavvertitamente chiama l’astronave dando inizia ad una vera caccia del Super Predator nei confronti del Predator. Quest’ultimo contrario al fatto che la sua specie vuole impossessarsi dell’intero pianeta, perché il cambiamento climatico potrebbe, nell’arco di un paio di generazioni, portare all’estinzione della razza umana e quindi, dando un’accelerata, modificare la Terra e rendendola adatta alle loro esigenze, ma salvando i tratti del nostro DNA, utili al loro scopo. Il bambino diventa l’obiettivo primario, con il suo particolare patrimonio genetico, rapito e portato sull’astronave-Arca. Quasi come se fossimo «alla fine dei tempi». L’Apocalisse.
E qui i concetti cominciano a farsi molto interessanti, più di quanto dicano espressamente le sinossi dei vari lungometraggi. Se è proprio in questo film che gli viene assegnato il nome perché «più fico», non tutti sanno che in realtà i Predator appartengono alla specie aliena (immaginaria logicamente) degli Yautja, inoltre un sito specializzato «li pone al terzo posto nella lista dei dieci alieni cinematografici più spaventosi, e fra le dieci razze aliene meglio riuscite, mentre la comunità scientifica ha nominato il ragno oonopide Predatoroonops yautia in onore della specie»(1). Personaggio creato dai fratelli Jim e John Thomas, ha avuto una difficile gestazione fino a quando nel progetto fu coinvolto il pluripremiato e rimpianto Stan Winston (suoi infatti gli effetti speciali per i sequel di Alien e Terminator, Jurassic Park, Avatar ecc.) che ne fece un vero character, ispirato da un quadro di Alan Munro raffigurante un guerriero dal forte look rastafarianesco. «Predator 2 fu il primo a mostrare l’interno di una nave Yautja, il cui disegno fu ispirato dall’architettura azteca e maya»(2). L’apice di tale concetto viene raggiunto nel primo crossover (Alien vs Predator) dove a centinaia di metri sotto l’Antartide, i protagonisti scoprono una piramide costruita secondo le conoscenze delle civiltà egizia, cambogiana e azteca, confermando in tal senso tutta una letteratura di frontiera che afferma che la nostra civiltà è stata fortemente influenzata dagli extraterrestri, e non solo a livello architettonico (le piramidi, ecc.).
Ancora più sorprendente è il termine utilizzato nel romanzo di John Shirley, dal titolo Predator: Forever Midnight, che identifica gli Yautja con la frase “Hish-qu-Ten” cioè “popolo che si impadronisce di territorio”(3). Non sono riuscito ad appurare con certezza a quale lingua appartenga la frase, sembra un misto fra l’ebraico (la scrittura) e il cinese (la fonetica), ma se facciamo finta che sia ebraico allora è possibile fare dei parallelismi, spero abbiate capito, con La Bibbia!
Premesso che il Rastafarianesimo è una vera fede religiosa quasi erede del Cristianesimo, e che «riveste una certa importanza nella tradizione della Chiesa ortodossa d’Etiopia a cui tutti i rasta fanno riferimento (omissis) è fondata sull’esempio e la predicazione (del suo fondatore, nda) Hailé Selassié I»(4). Il popolo (che popolo non era e non era nemmeno una tribù), ma un semplice clan familiare capeggiato da Giacobbe figlio di Isacco, il cui secondo nome era Israele (e da qui la confusione, nda) che, con la guerra, riuscì a conquistare solo dei piccoli pezzi di territorio con l’aiuto di Yawhew. Ora se consideriamo il termine “hish” un nome collettivo (popolo), ancora in ebraico “ish” semplicemente significa “uomo”.
Yawhew, l’Elohim (plurale) fatto diventare “Dio”, viene definito: “ish milchamàh” (Esodo 15,3), letteralmente “uomo di guerra”. Uomo. Non Dio. Probabilmente c’è più (fanta)scienza nel nostro passato che nel nostro immediato futuro.

Nota dell’autore:
Dove non specificato le citazioni sono tratte dal film.

Note:
1. https://it.wikipedia.org/wiki/Yautja
2. idem
3. idem
4. https://it.wikipedia.org/wiki/Rastafarianesimo

Fonti:
1. https://it.wikipedia.org/wiki/Yautja
2. https://www.comingsoon.it/film/the-predator/54399/recensione/
3. https://www.mymovies.it/film/2018/predator/
4. http://www.fantascienza.com/24049/the-predator-e-nelle-sale
5. https://it.wikipedia.org/wiki/The_Predator_(film)
6. Wikipedia

Credit: immagine tratta da https://www.mymovies.it/film/2018/predator/poster/1/