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Il mondo dietro di te

«Un giorno ripensandoci, ci rideremo sopra, fidati…». A pronunciare le classiche ultime parole famose, presenti però solo nel trailer, è la credibile star, raramente alle prese con una pellicola oltre confine, Julia Roberts, protagonista de Il mondo dietro di te (tit. or. Leave the world behind), scritto e diretto da Sam Esmail, prodotto da Netflix e uscito direttamente in streaming. «Dentro di noi lo sapevamo tutti che questo giorno sarebbe arrivato», è invece la tagline. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Rumaan Alam, bestseller 2020, qui anche produttore esecutivo. Si inizia con una visione dallo spazio del pianeta Terra, con il sole che sorge, annunciando una vivida alba, molto simile a quella vista in film come Segnali dal futuro (A. Proyas, 2009), titolo e film citati non a caso, ma lo stesso e il regista, devono molto anche ad altre opere, in particolare a E venne il giorno (M. Night Shyamalan, 2008), non solo per l’angoscia che vi traspare, aumentata da riprese quasi simmetriche e dalla presenza di figure geometriche in antitesi come rettangoli (la piscina) e cerchi (l’aiuola). Diviso in capitoli, ad iniziare da “La casa”, dove si svolge gran parte dell’azione: e dove credi di essere al sicuro prima che due estranei, padre e figlia, in realtà i proprietari, bussino alla porta. Ma la prima scena disturbante è il lento arrivo di una petroliera che  poco a poco, fra l’imbarazzo dei bagnanti, ne assistono impotenti al naufragio sulla sabbia, effetto un po’ forzato perché, secondo logica quest’ultima, dato il pescaggio, si sarebbe dovuta arenare molto prima di arrivare sulla battigia e oltre. Di colpo tutta la tecnologia inizia a non funzionare, l’ipotesi più concreta è all’inizio, quella di un cyber attacco, c’è solo il tempo di ricevere un National Alert, uguale al Presidential Alert di Greenland (Ric R. Vaugh, 2020), con G. Butler, protagonista anche di Geostorm (D. Devlin, 2017). Come nel film di Shyamalan, anche la natura fa la sua parte, oltre ai soliti stormi di uccelli che fuggono nella stessa direzione, di particolare rilievo è il simbolismo dei cervi, quasi inquietanti, presenti, come accennato nel film, nella mitologia mesoamericana, che si avvicinano senza timore agli umani, quasi per un tentativo di comunicazione. Allora «Se non sei paranoico, forse è troppo tardi», e di fatto cadono aerei, prima uno, di cui si vedono i rottami sulla spiaggia, poi un altro, un altro ancora sorvola la zona lanciando volantini in arabo, inneggiando alla guerra contro gli Stati Uniti. «Conoscere gli schemi che governano il mondo, devi saper leggere la curva, se la studi come faccio io, puoi prevedere il futuro». La tensione si impenna, anche grazie ad una regia che nei momenti topici predilige inquadrature con prospettive aberrate; dopo i telefoni in tilt perché evidentemente anche i satelliti per le comunicazioni hanno smesso di funzionare, si sentono esplosioni in lontananza e un forte ronzio, un «frastuono» talmente forte che non serve proteggersi le orecchie, e che suggerisce l’uso di «armi a microonde». Un timido tentativo di fuga dall’incubo di tutta la famiglia, fallisce perché all’improvviso, sulla strada che sembra deserta, si scopre una moltitudine di macchine bianche, tutte uguali e tutte dello stesso famoso marchio, che all’improvviso ti vengono addosso, come in un assurdo videogioco, con il parabrezza come schermo. Eppure è nei dialoghi, -che andrebbero analizzati e sviscerati, più che nelle immagini, dove il film sembra sostenere sè stesso; in uno di questi tra la Roberts e il proprietario della casa, l’attore Mahershala Ali afro-americano, dettaglio da non trascurare, come vedremo, si intravede uno spiraglio: «La congrega malvagia che governa il mondo»; «Nessuno ha il controllo, nessuno muove i fili», ma il senso del discorso che apparentemente sembra complottista, vira in direzione opposta perché anche se ai piani alti possono avere le «informazioni giuste», quando però capitano eventi così nel mondo «persino i più potenti possono soltanto sperare di ricevere una soffiata». Ed ecco che uno schema, appare davvero, Prima Fase: Isolamento; Seconda Fase: Caos Sincronizzato; Terza Fase: Colpo di Stato; poi la guerra civile e il collasso. Fasi fin troppo simili alle famigerate Tre Alternative, proposte dalla Jason Society nel 1957 al Presidente Eisenhower, per una riduzione drastica della popolazione mondiale. «Finzione e/o Realtà»?, -l’interrogativo è mio, ma questo è il titolo del servizio del settimanale della Rai “TV7”(1), a firma di uno dei più famosi giornalisti italiani, Marco Varvello, per anni corrispondente prima da New York, poi da Londra, che usa il binomio che salta sempre fuori quando si ha a che fare con la fantascienza e un possibile futuro distopico. Forse molti non se ne sono accorti, ma fra i titoli di testa del film, tra i produttori, figura anche la Higher Ground, i cui soci fondatori sono l’ex coppia Presidenziale degli Stati Uniti: Barak e Michelle Obama! Il regista ha confermato che Obama stesso «gli ha fornito degli appunti sulla sceneggiatura»(2), mentre nel servizio succitato, ha dichiarato che il film è «un ammonimento su quello che potrebbe accadere». Quindi Varvello, continuando sulle immagini reali di scontri fra manifestanti e forze dell’ordine, snocciola tutta una serie di concetti che non fanno ben sperare, infatti gli «strateghi del Pentagono», sono convinti che la «minaccia esistenziale», creerebbe il «caos», che porterebbe ad una «guerra civile ingovernabile», dove salterebbero le comunicazioni, internet verrebbe disattivata (proprio come accade nel film, nda), attaccato il «sistema di controllo aereo, le centraline digitali di auto, navi, voli di linea…». «La paura e il caos» regnerebbero ovunque, si inizierebbe dal vicino di casa, (ancora come nel film, nda), che improvvisamente diverrebbe il tuo «peggior nemico», fino agli «aspetti strategico-militari» e alla «guerra psicologica simmetrica». In definitiva: «La fragilità della nostra vita quotidiana che va in pezzi». Le scene catastrofiche diventano di colpo molto realistiche quindi, al solito: «Qual’è la verità?». Il momento cruciale di tutta la pellicola è il dialogo di cui sopra. Come sempre, questa è solo la nostra modesta opinione, non siamo d’accordo: «sappiamo che è tutta una bugia», l’ennesimo tentativo di depistaggio, le molliche di pane lasciate per chi ha orecchie per intendere: a parlare è lui! È Obama stesso! Afroamericano come appunto l’attore. Non basta una congiunzione astrale, nè un eclissi totale, nè tantomeno la bandiera a stelle strisce sulla Luna, ormai consumata -da cosa, sè sul nostro satellite non c’è aria?, che possono fuorviare. Non servono dritte, nessun suggerimento alla sceneggiatura e al regista, è tutto ben visibile, per l’ennesimo tentativo d’informare in modo indolore, da parte di quello che è stato per otto anni l’uomo più potente del mondo e -credo di non essere il solo, colui che sapeva fin dai tempi del College che sarebbe diventato Presidente, lo stesso che, probabilmente, è stato due volte su Marte… Il mondo dietro di te, è niente più e niente meno, quello che si lascerà alle spalle il Nuovo Ordine mondiale!

Nota dell’autore:

Dove non specificato le citazioni sono tratte dal film.

Altre fonti:

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Captive State: tra ordine e caos

«La nostra ossessione per l’antagonismo del momento, ci fa dimenticare spesso quanto uniti devono essere tutti i membri dell’umanità. Forse abbiamo bisogno di una lezione, proveniente dall’esterno, dall’universo, che ci faccia riconoscere questo bene comune. Occasionalmente penso a come le nostre differenze planetarie potrebbero facilmente dissolversi, se dovessimo affrontare una battaglia con una forza aliena esterna a questo pianeta…». Questa citazione è parte di un famoso intervento di Ronald Reagan(1) sugli ufo all’Onu, il 21/09/1987, e che nelle sue intenzioni sarebbe dovuto essere di auspicio, una sorta di collante per l’umanità, facendo sperare in un futuro diverso. Com’è diverso in tutti i sensi l’intento di Rupert Wyatt (già autore del reboot/remaque L’Alba del pianeta delle scimmie, 2011), nel suo, da poco nelle sale, Captive State. Un’opera particolare non solo per la trama, gli effetti e l’ambientazione, ma proprio per il suo significato intrinseco che, è l’opinione comune, travalica naturalmente e di molto, il discorso fantascientifico. Infatti è solo l’invasione aliena, che per alcuni scienziati, con in testa il compianto Stephen Hawking (1942-2018), che si lamentava del fatto che segnalare la nostra posizione alle altre, possibili civiltà presenti nel nostro vicino universo, è molto pericoloso, perché potrebbero arrivare civiltà bellicose che vogliono solo predarci, è da considerarsi, ma non tanto, fantascienza. È proprio questo che accade nel film di Wyatt.
La storia inizia quasi dieci anni dopo il “primo contatto”, non pacifico, come in Star Trek, ma gli alieni, sfuggenti e dalla particolare forma, arrivati con astronavi che ricordano più le montagne sospese di Avatar, che le forme-pensiero di Arrival, si sono stanziati nel sottosuolo della Terra (una strizzatina d’occhio alla teoria che vuole che gli ufo provengano dall’interno del nostro pianeta?), per depredarlo di tutte le risorse naturali. L’umanità vive sulla superficie, in un mondo devastato dalle guerre, uno scenario post-atomico, dove la popolazione è divisa tra collaborazionisti e insurrezionisti che cercano, con una organizzazione clandestina la “Fenice”, di capovolgere le sorti del, non ancora segnato, destino.
Diversi sono i film paragonabili alla pellicola in oggetto. La Chicago di Wyatt, ricorda la Los Angeles del film World Invasion (J. Liebesman, 2011), anche se lì si combatteva a distanza ravvicinata per le strade.
La Macchina Da Presa entra dappertutto, nelle strettoie, nelle case, nelle baracche, con riprese quasi “a spalla” riprendendo i soggetti da dietro, come in un docufilm, che fa balzare alla mente lo splendido I figli degli uomini (A. Cuaròn, 2006), mentre il vago retrogusto segregazionista rimanda a film come Alba Rossa (J. Milius, 1984), con protagonisti dei ragazzi, costretti a diventare uomini troppo in fretta. Come il protagonista del film Gabriel che ha visto i genitori morire sotto i suoi occhi, uccisi dagli alieni, i Legislatori, alla ricerca del fratello Rafael, due “Angeli Negri” (F. Leali), impegnati nell’eterna lotta tra il bene e il male.
Infine, le atmosfere orwelliane, fatte di orizzonti cupi, di chip, di cimici, impiantate alla base del collo (altro riferimento agli impianti degli addotti), ma sul davanti, di collari che rimandano alla teoria che l’uomo probabilmente è un animale addomesticato, infatti una delle traduzioni del titolo del film è: Stato di cattività.
La tecnologia nell’anno 2025 c’è ancora, i computer, internet, anche se ci si collega alla rete alla vecchia maniera, cioè usando la cornetta del telefono, niente mail, ma messaggi anonimi nelle inserzioni dei quotidiani, niente iPod, ma i vetusti 33 giri, fino ai piccioni viaggiatori. Ma a rafforzare il concetto che ormai siamo schiavi della tecnologia, a tal punto da non vedere ciò che accade davvero intorno a noi, con i poteri che entrano sempre più in maniera spietata nella nostra privacy, è grazie ad un vecchio telefonino Blueberry e alla sua scheda che Gabriel scopre la verità, fino a capire i giochi del potere, il ribaltamento dei ruoli, dei concetti, nel film «niente è come sembra». Il commissario (un ottimo John Goodman) è una sorta d’infiltrato, la prostituta Jane Doe(2) è in realtà il Numero Uno della Fenice, fino alla difficile scelta tra ordine o caos, tra democrazia o anarchia, perché a volte non basta un fiammifero per accendere una guerra (dal film).
«E ancora mi chiedo: non esiste già una minaccia aliena sopra di noi?». Così Reagan terminò il discorso iniziale che dal punto di vista ufologico è ineccepibile, ma la morale del film è, purtroppo ben altra. Forse non dobbiamo pensare agli alieni come extraterrestri provenienti dallo spazio profondo, forse i veri nemici sono più vicini di quanto potremo mai immaginare…

Note:
1. Ronald W. Reagan (1911-2004) è stato il 40° Presidente USA dal 1981 al 1989.
2. Jane Doe, nome che viene dato negli ospedali americani alle donne che non possono essere, per il momento, identificate, è interpretata dall’attrice Vera Farmiga.