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L’Angelo del Male

Brightburn, un’anonima cittadina nell’America rurale del Midwest, quasi alla periferia del mondo. Molto simile a Smallville, la patria di Superman -perché è di questo che parla il film di D. Yarovesky, un infante caduto dallo spazio in una navicella nei pressi della fattoria dei coniugi Breyer, che adottano il piccolo e lo crescono come se fosse loro, ritenendolo un dono del cielo. Dodici anni dopo il ragazzo è cresciuto pressoché come un qualsiasi coetaneo, anche se introverso, solitario, sempre intento a scarabocchiare un suo personale diario e in particolare un simbolo, preso di mira da suoi compagni di classe che quasi lo bullizzano. Per caso scopre i suoi poteri che sembrano scatenarsi quando la sua rabbia prende il sopravvento. All’inizio appaiono solo le reazioni di un adolescente nell’età difficile della pubertà, ma come succede spesso le paure dei genitori e di chi gli è vicino diventano reali. Nella prova di fiducia nell’ora di ginnastica cade battendo la testa e quando la compagna di classe le tende la mano per aiutarlo ad alzarsi lui gliela spezza. Infatti Brandon, interpretato da Jackson A. Dunn – l’Angelo del Male, il cui ruolo gli calza a pennello, è forte come Hulk, veloce come Flash, in grado di volare come Superman, ma con la luce negli occhi che è quella dei bambini de Il villaggio dei dannati (W. Rilla, 1960), uno dei classici della FS e la malvagità che è la somma di tutti i cattivi antagonisti dei supereroi. Qualcuno starà pensando che è una storia già vista e con il finale scontato. Non è così, non proprio. Se l’idea potrebbe essere non nuova -non è che ci voglia tanto poi a ideare un supereroe negativo, ma qui entrano in gioco prima la bravura del regista che usa la telecamera con uno stile molto personale: scene riprese da particolari angolature, immagini (poche) simmetriche che nei momenti di tensione aumentano la stessa e il senso di claustrofobia che assale chi si sente come costretto in un angolo, infine il magistrale uso degli effetti speciali ad aumentare l’horror di cui il film è pieno, con scene che rasentano lo splatter. Quando il ragazzo capisce l’eccezionale portata delle sue capacità, man mano riesce a controllarle, scatenandosi solo all’occorrenza e, di fatti, le uccisioni aumentano senza che nessuno possa fermarlo. La sua consapevolezza si intuisce quando di notte entra nella stanza della ragazza alla quale ha rotto la mano, portandogli dei fiori -e non è un gesto semplice perché il senso della visita, secondo me è questo: io ho poteri straordinari, posso conquistare il mondo, tu sei vuoi potresti essere la mia donna. Come ogni supereroe ha il suo costume, anche se fatto in casa, non tute attillate e super performanti alla Batman o suite alla Ironman, nessun giocattolo tecnologico, nessun casco, ma un passamontagna tenuto insieme con i lacci delle scarpe allucinante come la maschera da hockey di Jason il protagonista della saga di Venerdì 13, un pezzo di stoffa rossa come mantello e le T-Shirt quasi simili a quelle di Freddy Krueger, il protagonista dell’altra saga horror Nightmare. Nell’apoteosi finale, sostenuta da un’ottima colonna sonora che ricorda quasi l’ossessività de Lo squalo (che fu realizzata con il martellante uso di sole due note), l’immaginazione degli autori tocca punte elevatissime in particolare nelle scene del volo di Brandon, si ha quasi la sensazione di essere al suo posto…
E la resa dei conti, con la madre, arriva peggio del peggiore degli uragani. Con la casa distrutta, la mamma ha un’intuizione, proprio come Superman anche Brandon ha la sua kryptonite: una scheggia di metallo della navicella spaziale con il quale è giunto sulla Terra. I due si abbracciano, si stringono, il ragazzo dice che in realtà «vorrebbe far del bene» e gli si può anche credere. La mamma risponde dicendogli che lo amerà per sempre, poi alza la mano brandendo il pezzo di metallo nel tentativo di conficcarglielo nella schiena, ma senza risultato, fermata un attimo prima dal figlio. Cosa possiamo desumere dall’intensità di questi pochi, cruciali, fotogrammi? Che forse la filosofia orientale è la più vicina alla realtà: l’abbraccio sta ad indicare loYin (nero) e lo Yang (bianco), entrambi racchiusi nel cerchio che simboleggia l’universo duale, senza sfumature, senza gradazioni di grigio, ma con un cerchio più piccolo, bianco nella parte nera e un altro nero nella parte bianca, ad indicare che nessuno è totalmente buono (la madre) e nessuno è totalmente cattivo (Brandon). Prima dei titoli di coda, accompagnati da un altro pezzo da brividi, scorrono le immagini delle Breaking News da Brightburn, che parlano di avvistamenti di un’entità volante, cadute di palazzi, distruzioni ovunque e con lo studioso controcorrente che sentenzia: «i media tradizionali vi propinano sempre le solite stronzate».

Credits: in foto, elaborazione grafica di giuseppe nardoianni