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Killers of the Flower Moon

Sono certo che vi starete chiedendo come mai un film dove non compare nessuno dei must -Ambiente a parte, del blog, possa essere preso in considerazione dallo scrivente.
La ragione è semplice: considero il popolo dei nativi, soprattutto nord-americani, come la civiltà più saggia che abbia mai visto la luce sul nostro pianeta, e non soltanto per questa umanità, ma fin dove ne serbiamo memoria, comprese quelle appartenenti al mito.
Iniziamo dal contesto storico: nel 1886 poco più di un secolo dopo l’Indipendenza (1776), il governo americano pose fine a quella che è riportata sui libri come “la questione Indiana”. L’ultimo ad arrendersi fu Geronimo (1829-1909) sciamano e capo guerriero Apache. Anche se una delle pagine più nere della storia americana avvenne pochi anni dopo, il 29 dicembre del 1891 a Wounded Knee, quando le mitragliatrici e la Cavalleria falcidiarono un intero villaggio, donne e bambini compresi.
W. E. Washburn, nel suo libro Gli Indiani d’America (Editori Riuniti, 1981) così scrive: «la presenza e l’impatto dei bianchi sulla vita indiana sono stati così imponenti che si falsificherebbe la storia se si cercasse di studiare gli indiani come se i bianchi non fossero esistiti…».
In realtà la storia è stata falsificata, si perché la mistificazione dei racconti da parte di esploratori, cacciatori, e coloni, fino agli scrittori e ai registi che vedevano nei nativi, solo dei selvaggi, non solo hanno impedito di comprendere la magnificenza e nobiltà della cultura indiana, ma soprattutto sembra abbiano giustificato, in un certo senso, il sistematico massacro compiuto ai loro danni.
Sterminati per il progresso? Per le mire espansioniste, nel Far West, degli Stati Uniti? Per la corsa all’oro? Niente di tutto questo, infatti -e questa è sola la mia modesta opinione, che il motivo, per il quale milioni di nativi, sono stati uccisi fin dai tempi dei conquistadores, è uno e uno soltanto: il loro stile di vita!
Loro non sapevano che cosa fosse il lavoro -almeno non nella visione occidentale, prendevano dalla natura, per la quale avevano un’autentica venerazione, solo quello che bastava per il loro sostentamento, ringraziavano e pregavano per ogni animale ucciso (proprio come si vede in Apocalypto di M. Gibson e in Avatar di J. Cameron), di conseguenza, avevano più tempo per dedicarsi agli affetti, alla famiglia, a tutte quelle attività di svago e creative che potessero alimentare in maniera positiva lo spirito e l’anima. Non capivano il concetto di proprietà, in realtà del tutto astruso, ma soprattutto non capivano che la terra -la “Madre Terra”, si potesse suddividere, trattare e mercanteggiare, e come molti non sanno, non sapevano assolutamente che cosa farsene del denaro! Per loro semplici pezzi di carta…
Eppure si sono fidati dei bianchi, dei “visi pallidi”, come ci chiamavano, e dei loro trattati: chiusi in riserve, malnutriti e decimati, a volte con l’uso di coperte infestate dal vaiolo, spesso con il tacere della Chiesa, i cui rappresentanti, i “Manti Neri” (i Preti, v. il film di B. Beresford, 1991), cercavano di imporre loro il cristianesimo, anche con metodi poco ortodossi, come nel caso di Alce Nero, capo guerriero della tribù Oglala, battezzato con il classico gavettone…
Fumare la pipa “il Calumet”, davanti a un bel fuoco era uno dei loro, innocenti piaceri, ma purtroppo, come vedremo, non il solo. In uno dei film che hanno rappresentato la svolta, riconsegnando la dignità a tutta la nazione dei nativi americani, Balla coi lupi (K. Costner, 1990), il Ten. John J. Dunbar che fino al contatto non sapeva chi veramente fosse, assimilato totalmente alla cultura dei “selvaggi”, riflettendo, definisce con un solo, significativo termine, la sua nuova condizione: «armonia».
Il rispetto per l’ambiente, dove ogni componente era sacro e l’armonia con il creato appunto, faceva sì che il loro grado di spiritualità fosse molto alto, tale da rendere poca cosa quello che è in noi oggi.
E se nel film di Costner i protagonisti, sono gli appartenenti alla fiera Nazione Sioux, nel film di Scorsese -che compone forse la più riuscita triade Hollywoodiana con altri due Premi Oscar, De Niro e DiCaprio (qui anche produttore esecutivo), e con la vera nativa Lily Gladstone, l’azione si svolge all’interno della Nazione Osage: “Il popolo del Cielo”, “Il popolo delle Acque di Mezzo” e il riferimento ai primi versi della Genesi, c’è tutto. Ambientato nei primi anni venti del secolo scorso a Fairfax in Oklahoma, i membri della tribù scoprono che sotto i loro piedi scorrono fiumi di petrolio, facendoli diventare di colpo «Il popolo scelto dal caso, con il reddito pro-capite più alto del mondo».
Tratto dal libro di David Grann(1), dal titolo Killers of the Flower Moon (letteralmente Gli assassini della Luna dei Fiori), ma tradotto in italiano con il titolo “Gli assassini della terra rossa”, narra anche delle investigazioni da parte dell’allora nascente FBI, il Federal Bureau of Investigation, forse al suo primo, importante caso, per quanto concerne gli omicidi ai danni, di uomini e donne, della nazione Osage, all’epoca dei fatti.
Il film però non ha convinto in pieno gli attuali Osage, perché secondo i vari consulenti, racconta il punto di vista dei bianchi, che si sentivano intoccabili perché era «più facile essere condannato per avere preso a calci un cane, che per aver steso un indiano».
Anche se il film inizia con una toccante cerimonia, dove viene seppellita una pipa che, al contrario, vale come “disseppellire l’ascia di guerra” (frase questa presente in tutti i western vecchia maniera), le immancabili contaminazioni culturali sfociano nell’alcool (l’”acqua di fuoco”, il solo vizio ereditato dai bianchi), a malattie come il diabete, la tosse canina e alle morti per «deperimento organico».
Tutto in contrasto con l’opulenza, le auto lussuose, gli abiti eleganti e raffinati gioielli, il conto in Banca… Cose che erano lontane anni luce da quella che era la vera essenza di tutti i nativi americani.
Scorsese, che quasi alla fine si regala un piccolo cameo, con una scrittura lenta, fatta di molti dialoghi, mette in scena una sorta di “regno del terrore”, dove i “bianchi” sciamano a flotte sull'”oro nero”, per appagare la loro brama di ricchezza e avidità, incuranti dell’innocente sangue versato per lavarsi una coscienza totalmente assente soprattutto nei protagonisti principali, “il Re”, De Niro, lo zio Massone del 32° livello e il nipote DiCaprio, soltanto una pedina, sacrificabile, nelle sue mani.
Non c’è posto per i fiori, in tanta violenza, sono presenti solo all’inizio con la distensiva vista di un prato con tutti fiori lilla e allegoricamente nei frames finali quando dall’alto viene ripresa una moltitudine di nativi che balla, intorno ai tamburi rullanti, come un immenso fiore che gira su sè stesso in una sorta di connubio con la natura. Un connubio sconosciuto all’uomo bianco, capace solo di fare terra bruciata al suo passaggio, e non un’immagine potente come la scena finale e la commovente, evocativa preghiera al “Grande Spirito”, di Chingachgook, alla morte del figlio, che lo rende, L’Ultimo dei Mohicani.

Note:
1. Altro libro di D. Grann è The Lost City of Z, da cui è tratto il film La Civiltà Perduta (qui la mia recensione).

Fonti:
https://www.mymovies.it/film/2023/killersoftheflowermoon/
https://www.mymovies.it/film/2023/killersoftheflowermoon/rassegnastampa/1709061/
https://www.mymovies.it/cinemanews/2023/184243/
https://www.comingsoon.it/film/killers-of-the-flower-moon/58030/scheda/
https://www.comingsoon.it/film/killers-of-the-flower-moon/58030/recensione/
https://www.mymovies.it/film/2023/killersoftheflowermoon/news/scorsese-e-dicaprio-ancora-una-volta-insieme/
https://it.wikipedia.org/wiki/Killers_of_the_Flower_Moon
https://it.wikipedia.org/wiki/David_Grann
https://www.comingsoon.it/cinema/news/killers-of-the-flower-moon-le-opinioni-contrastanti-dei-consulenti-osage/n167870/
https://www.ilgiornale.it/news/mondo/mio-antenato-alce-nero-non-mai-stato-davvero-cattolico-1478596.html
http://laschiavitudellavoro.blogspot.com/2015/11/gli-indiani-avevano-gia-capito-tutto.html

credit:
https://www.mymovies.it/film/2023/killersoftheflowermoon/poster/0/

Montecassino

          Questa storia partecipa al Blogger Contest.2018

Link: Altitudini

Sono nato ad Amalfi, poco dopo la fine della Grande Guerra, nel 1921 e non ho mai conosciuto mio padre. Mi ricordo poco dei miei primi anni; ero ancora in braccio a mia madre quando, tornando verso casa, ella inciampò in una granata quasi dissepolta che esplose, io ne uscii indenne ma lei, proteggendomi, perse l’uso di un braccio e completamente l’udito. La mia vita è sempre stata a metà, ricevevo le carezze con una sola mano, stavo in braccio, sempre sullo stesso lato; vivevo, a metà strada, come Amalfi.
Una piccola perla incastonata nella costiera omonima, divisa tra il mar Tirreno e i monti Lattari. Non sapevo quale direzione avrebbe preso la mia bussola, andare per mare, come i miei avi, ai gloriosi tempi dell’antica Repubblica o inerpicarmi sulle montagne, così come ogni giorno ascendevo l’affetto e l’amore per mia madre, che non sentiva quando la chiamavo mamma, non poteva ascoltare i miei propositi, ma intuiva se le parlavo con la voce dell’anima. Lei era la mia costante, la mia pietra di paragone: avrei vissuto una vita semplice, fatta di piccole gioie o una vita straordinaria? Il destino volle che mi confrontassi con l’altra grande guerra.
Qualche anno dopo, trasferiti a Crotone, le mie aspirazioni erano ancora dentro una nebbia grigia che avvolge un sogno. Crotone come Amalfi era adagiata fra il mare e i monti; io inseguivo gli ideali della Patria, fantasticando battaglie epiche, come quelle combattute nell’antichità da Kroton, fratello di Alcinoo, re dei Feaci. Ma era anche il tempo delle leggi razziali e Crotone era stata il centro più importante della Magna Grecia, la città di Pitagora, che ne fece il cuore della sua scuola, del suo pensiero condiviso da altri filosofi, e patria del razionalismo e del metodo scientifico. Il clima salubre della città, favorì il fisico atletico, ricordavo il pluri-olimpionico Milone.
La leggenda narra che egli partì per Olimpia portando un toro sulle spalle e sulle mie spalle già gravava il peso delle responsabilità di una vita maturata in fretta, senza la guida di una figura paterna. Crotone era famosa anche per la bellezza delle sue donne, io ne sposai una.
Il mio viaggio proseguì, a vent’anni risalii quasi tutta la penisola, approdando a Pietra Ligure, per frequentare la scuola di fanteria San MarcoIl panorama non cambiò molto, come Amalfi e Crotone, anche questa, era divisa tra la montagna e il mare. Quello che stava cambiando era il panorama mondiale, lo scenario bellico. A fine corso fui spedito a Cassino in appoggio alle forze militari germaniche. Iniziai così a percorrere il sentiero nero della guerra. Il mio battaglione venne stanziato presso una caserma fortificata a 3km da Cassino, posizione conosciuta come Quota 213. Ma la quota, alla quale si stagliavano le bianche mura dell’Abbazia, era un po’ più in alto e per arrivarci si dovevano attraversare mulattiere impervie a causa delle barricate, dei campi minati, delle grotte usate come postazioni strategiche, persino una sorta di piccolo Golgotha dove erano crocifissi due soldati polacchi. A volte c’era una calma irreale, i tedeschi se ne stavano per conto loro, tutti avevamo il sentore che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno. Ebbi l’occasione di conoscere uno dei loro comandanti, un colonnello molto colto, ma non troppo amato dai suoi commilitoni.
Fu lui ad introdurmi nei silenziosi, austeri, corridoi dell’antico Monastero.
Il fascino di quei luoghi, le mirabili spiegazioni del colonnello seppur nel suo stentato italiano, come il primo documento riconosciuto della lingua italiana, la Carta Capuana, lì custodita. Ammirai gli archivi, le favolose biblioteche piene di opere dell’antichità, conservate e trascritte nei secoli dalle scuole amanuensi e miniaturistiche degli abati. Non capivo perché un uomo della sua cultura, una sorta di Virgilio, per me, potesse obbedire ad ordini così feroci e inumani. Fu lui a rispondermi indirettamente, disse che in guerra il vero nemico non si può sconfiggere, perché in guerra il vero nemico è la guerra stessa. E chi nasconde la conoscenza, quello è un vero criminale: in quel preciso istante seppi quale sarebbe stato il sentiero che avrei percorso nella vita. Fummo richiamati a Roma pochi giorni prima dell’Armistizio, e proprio l’8 settembre mi ordinarono di sparare: non so’ se i miei colpi freddarono i nuovi nemici, i tedeschi. Gli alleati risalivano lentamente la penisola, seppi della battaglia di Montecassino, dei tanti morti tra i civili -una strage inutile, delle rovine che le truppe americane si lasciarono alle spalle, persino delle macerie dell’Abbazia.
In quel momento il mio pensiero era per un solo uomo e per mia madre.
Finita la guerra, intrapresi il lungo viaggio a piedi che mi avrebbe ricondotto a Crotone, feci tappa a Cassino per salire sopra, fino alle macerie. Qualcuno mi indicò un piccolo cimitero: trovai la sua tomba.
Ridiscesi di nuovo quel sentiero, ero un altro uomo.
Diversi giorni dopo, poco prima di Crotone, incontrammo una colonna di profughi. Seppi che c’era anche mia madre, non ci riconoscemmo.
Ora, mentre sono in classe con i miei alunni, rivedo i loro volti, quello di mia madre sull’uscio sorridente ad accogliermi.
Noi seppelliamo vivi i nostri morti, nessuno muore mai per sempre. Perché di tutte le vite che sfioriamo, ne resta il ricordo in fioche memorie.

In memoria di Giovanni Torre (1921-2003)

Montecassino, le macerie

Montecassino, il cimitero tedesco

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